lunedì 24 marzo 2008

Scuola e famiglia per il superamento del disagio giovanile di Mario Rusconi.

Scuola e famiglia per il superamento del disagio giovanile
Mario Rusconi
(Preside Roma)



1. L’albero della scienza
“Ma vi era un albero proibito, un albero cioè di cui non dovevano mangiare i frutti. Si chiamava l’albero della scienza del bene e del male. Dio aveva detto che se Adamo
ne mangiava, sarebbe morto.[-----]
Iddio chiamò Adamo e disse: “Adamo, Adamo, dove sei?”
Adamo rispose: “Io ho avuto paura perchè mi trovavo nudo, e mi sono nascosto”
Iddio disse: “Chi ti ha detto che sei nudo?” Hai mangiato del frutto proibito?” [----]
Allora Dio si sdegnò con tutti, ma più ancora col serpente”.
(Da “La Bibbia per il bambino” pag. 19-21, Salani, Firenze 1957.)
Una recente indagine dell’OCSE, svolta a livello internazionale sui livelli di
competenza alfabetica degli adulti, ha messo drammaticamente in evidenza il
dilagante fenomeno dell’analfabetismo funzionale tra i giovani in età scolare e
postscolare, caratterizzato da povertà e ripetitività di linguaggio, da incapacità diffusa di leggere e comprendere testi, di risolvere semplici problemi di matematica, di elaborare concetti e di costruire nozioni.
Sembrerebbe quasi che la frequenza di una scuola “scivoli” sul vissuto di molti
ragazzi senza lasciare tracce formative di particolare rilievo sia in ambito cognitivo sia negli atteggiamenti e nei comportamenti.
A questo punto molti si chiederanno, anzi in molti ci chiederemo, che fine abbia fatto quel desiderio di conoscere, quell’ansia di sapere che costè così cara ad Adamo ed Eva, dove sia finita quella spinta incoercibile alla “scienza” di cui il serpente ha rappresentato, con tanta plastica evidenza, il vettore iniziale.
Per uscire, sia pure metaforicamente, dall’ambito biblico e tornare alle tematiche
sottese a questo intervento, è necessario affrontare con coraggio, utilizzando
strumenti di indagine conoscitiva ed offrendo prospettive, un problema di spiacevole
consistenza: come mai gli adulti e le loro istituzioni intenzionalmente formative non
riescono più ad entrare in piena sintonia ed a guidare il mondo dei bambini e dei
giovani?
I primi (i bambini) “si pongono tante domande fino a quando non iniziano la scuola la
quale sembra, poi, bloccarne del tutto la curiosità” (da: I. Selzberger-Wittenberg et
alii, “L’esperienza emotiva nel processo di insegnamento e di apprendimento”,
Napoli 1993 (pag.110-111)), tale è la massa di conoscenze proposte da risultare
invadenti. “O, forse, i metodi di insegnamento impiegati scoraggiano il desiderio di
scoprire per mezzo dell’esplorazione e della sperimentazione?”(ibidem)
I giovani (ma la cosa, sia pur attenuata, vale anche per i bambini) sono più coinvolti dal mondo della comunicazione e dalla intrecciata “overdose” di consumismo che dai tradizionali modi di “fare educazione” (scuola, famiglia, Chiesa, partito).
A questo punto potremmo, quasi, concludere che il disagio non è più etichettabile
come “giovanile” ma riguarda ed invade, invece, gli adulti e le loro istituzioni
educative, nei quali induce (o almeno dovrebbe) sensi di colpa, richiamando un
maggior senso di responsabilità e suggerendo di ricercare nuove strade e nuovi
percorsi.
Accingiamoci, dunque, ad osservare con realismo quali sono gli atteggiamenti più
frequenti che, di questi tempi, improntano l’azione degli adulti, perchè solo da
un’attenta anamnesi si può sperare di apprestare una congrua terapia.
Gli adulti-famiglia tendono a delegare sempre più all’istituzione formativa
(scolastica o extrascolastica) la “copertura temporale e spaziale” dei bambini-giovani, deresponsabilizzandosi, offrendo scarsa presenza e vicinanza ai figli, assolvendo (con l’intento, non tanto recondito, di autoassolversi) e giustificando ad oltranza, anche quando sarebbe il caso di essere una ferma e saggia guida di vita. Rinunciando, per dirla in breve, ad essere una base affettivamente sicura ed educativamente affidabile.
In questa azione potendo contare sulle allettanti sirene della televisione (quando
ancora attrae) o del “muretto-bar”.
Gli adulti-scuola sembrano aver centrato tutta la loro attenzione su un macro-
problema la cui soluzione (diversa a seconda dei punti di vista) dovrebbe in modo
salvifico rigenerare la formazione dei giovani nel nostro paese. Mi riferisco al
contrasto “scuola pubblica – scuola privata” (o, meglio, scuola statale – scuola non
statale) che ha assunto, nel corso dell’ultimo anno, aspetti quasi di “metafisica
educativa”, mentre – a mio avviso – si tratta di un problema ideologico e non
strettamente formativo. Comunque, però, la si metta, è indubbio che la diatriba in
corso ha oscurato quasi completamente il dibattito sul complesso e contraddittorio
panorama della formazione e dell'educazione.
2. Un’ipotesi inquietante
Negli ultimi anni gli attori più attenti alla questione scolastica si vanno interrogando sui rapporti che si instaurano tra una istituzione fortemente “ideologizzata” come la scuola (mi riferisco agli schemi di riferimento, ai prototipi ideali, alle aspettative saldamente precostituite) e la famiglia dell’alunno, che appare sempre più portatrice di comportamenti contraddittori, di richieste ambivalenti, di modelli culturali ibridi ed in continua, talora scomposta ed imprevedibile trasformazione.
Se scorriamo con pensiero veloce i punti essenziali delle tematiche che riguardano
ciò che definiamo per brevità disagio scolastico, viene spontaneo chiedersi – ad un
primo bilancio mentale – se le situazioni che si manifestano in ambito scolastico
siano un ”a priori” rispetto all’intervento didattico ovvero rappresentino,
paradossalmente, un risultato, almeno in parte, di quest’ultimo.
Posto in questi termini manichei il problema sembrerebbe risultare di difficile se non improbabile soluzione ma, nonostante ciò, permane la sensazione, in chiunque
conosca da vicino la questione, che vi possa essere della verità sia nell’una che
nell’altra ipotesi, convergendo entrambe verso un unico obiettivo, rappresentato dalla “normalità” scolastica.
3. Il disagio della scuola
Nel momento in cui il bambino o il ragazzo fa il suo ingresso in una comunità
educante presenta spesso comportamenti problematici che, in numerosi casi, trovano
le loro radici in situazioni di grave disagio: disagio individuale, familiare,
socioculturale, fortemente intrecciati ed interdipendenti.
Le conseguenze di questi comportamenti sono evidenti nel percorso di
apprendimento che è caratterizzato soprattutto da una mancata o scarsa
socializzazione nell’accezione ormai classica di O.G. Brim (1966): la insufficiente
padronanza di conoscenze, di abilità, di comportamenti e di sentimenti impedisce di
partecipare in maniera adeguata e soddisfacente alla vita sociale.
Da qui, in un processo non meccanico e lineare ma sicuramente dinamico, il passo
verso l’insuccesso scolastico, l’antisocialità, il bullismo o la violenza è spesso breve.
Il variegato fenomeno delle “prepotenze” – come è stato definito nella recente ricerca di Ada Fonzi (1997) – si presenta molto ampio e assurge spesso a “nonnismo, (…) “preludio a più gravi deviazioni in epoche future”.
Senza “un piano che comprenda, oltre all’intervento sulla classe, un impegno globale
che coinvolga la politica dell’intera scuola, le famiglie, il quartiere, le USL, etc “ non sarà possibile porre un freno alla violenza ed al sopruso.
Ma, anche senza pensare a forme manifeste di violenza, è innegabile che nelle nostre
scuole (non solo superiori) è diffusa una dimensione di costante microconflittualità
che sembra talvolta assorbire buona parte delle energie degli studenti (e non solo
degli studenti), distogliendole da un’armonica propositività socialmente e formativamente costruttiva.
Come reagisce la scuola di fronte a queste situazioni che definiamo genericamente di
disagio, sempre più diffuse data la complessità del vivere di questi nostri convulsi
anni?
Spesso, purtroppo, vengono assunti atteggiamenti di tipo negativo, che non tendono,
cioè, ad un equilibrato sviluppo del percorso formativo dello studente ma, anzi,
contribuiscono alla sua involuzione/negazione.
Proviamo, per comodità, a definirli. Essi appartengono a due categorie,
apparentemente contrastanti, in effetti complementari e convergenti: quella
definiamola militaresca e quella paternalistico-lassista.
La prima, attualmente meno diffusa, può esprimersi in punizioni disconfermanti, in
provvedimenti anacronisticamente rigorosi o, forse peggio, in forme di isolamento e
di ghettizzazione frustanti.
E’ frequente leggere sui quotidiani (che pare abbiano una inquietante predilezione per questo genere di fatti, che permettono di disegnare scenari improntati da “folklore pedagogico” particolarmente apprezzato dai consumatori di mass-media) di
atteggiamenti “retro” presi da un docente, dal capo d’istituto, da uno dei numerosi
organi collegiali.
Anche se i comportamenti autoritari della scuola vengono sempre enfatizzati, è
doveroso riconoscere che l’impostazione di certi provvedimenti non risponde ad una
logica educativa, ma ad una di tipo punitivo.
Ma ben più gravi, formativamente parlando, sono i microatteggiamenti permeati di
sottovalutazione, di sarcasmo, di negazione dell’altro come persona, di
incomprensione che caratterizzano talvolta gli operatori scolastici.
A queste ultime, gravi problematiche, curiosamente, i nostri mass-media sono poco
attenti: eppure si tratta di modalità relazionali diffuse che incidono in profondità sulla personalità in formazione dello studente, costituendo una specie di goccia che scava, lentamente ma inesorabilmente, la pietra.
Tutto ciò però fa “poco notizia” e non colpisce l’immaginazione dei lettori/ascoltatori che, invece, sono più portati a credere che, da un quattro assegnato ad un’interrogazione di matematica o da una sospensione dalle lezioni possa derivare – in una lineare ed inesorabile consequenzialità – un suicidio adolescenziale.
Nella seconda modalità, (quella paternalistico-lassista) più subdola e demagogica, ma
ahimè popolare, il contributo all’inasprimento delle difficoltà dell’individuo e della sua futura vita, personale e professionale, si concretizza attraverso un implicito patto scellerato: al dare poco o nulla, in termini formativi, ad un impegno saltuario e poco responsabile delle istituzioni fanno da “pendant” una insensata facilitazione del curricolo, finte promozioni, vere solo burocraticamente, una rimozione (incauta ma utile a molti) delle regole, del principio del limite, del senso di responsabilità. La scuola, insomma, come parcheggio, intrattenimento o “babysitteraggio” affettuosamente incosciente.
Come altro definirla, infatti, se poniamo attenzione alle sempre più frequenti
occupazioni degli istituti che, pur interrompendo a volte per mesi il servizio
scolastico, non producono alcun effetto sul curricolo dello studente?
In questo modo corroboriamo l’idea che “giovane è sempre e comunque, bello!” (ed
è un grave inganno pedagogico); che il compito primario della scuola non sia formare
(anche se la legge recita:”almeno 200 giorni di lezione l’anno”) ma intrattenere; che
le forze produttive della nostra società (specialmente nei prossimi anni di serrata
competizione) possono misurarsi in campo europeo e mondiale (non c’è forse la
globalizzazione?) proponendo giovani meno preparati e responsabili (e non sappiamo
neppure se, almeno, più contenti e felici dei loro coetanei europei soggetti ad una
disciplina formativa più rigorosa).
E siccome i guai, in genere, non vengono da soli, gli atteggiamenti autoritari e quelli lassisti spesso si sovrappongono, l’uno non escludendo l’altro nello stesso istituto scolastico e (accade anche questo!) a volte nelle stesse persone, in
un’alternanza/convergenza che sa di schizofrenia pedagogica.
Facce della stessa moneta. Falsa, però, senza possibilità di essere proficuamente
spesa, ma fastidiosamente circolante.
Come dovrebbe reagire, come talvolta reagisce, la buona scuola?
Attraverso strategie di intervento educativo-formative e didattiche. Con le prime è
importante favorire l’affermazione della prosocialità nella scuola, cioè di quei
comportamenti che favoriscano la socialità, l’accettazione delle regole, la coscienza
sociale, lo spirito di condivisione, di collaborazione e di solidarietà: il tutto può
realizzarsi attraverso una microoperatività diffusa fra gli operatori scolastici (non solo docenti) che abbia come obiettivi la comprensione delle convenzioni sociali e del punto di vista altrui, il contenimento degli impulsi aggressivi etc.
In poche parole, un’assertività di fondo che porti ad esprimere i bisogni non
implicando necessariamente conflittualità, disimpegno, deresponsabilizzazione.
Una efficace strategia didattica deve poi basarsi sul valore formativo delle
discipline per raggiungere lo scopo di far acquisire validi strumenti di conoscenza
critica: solo attraverso questo processo formativo è possibile che lo studente, forte del proprio senso di competenza, sviluppi un adeguato senso di autoefficacia ed
autostima con una benefica ricaduta sulla sua relazionalità.
Già Kipling sosteneva che il bambino che vive nell’apprezzamento diverrà più
comprensivo.
Per ottenere questi risultati è necessario avviare però adeguate procedure di
impostazione, di valutazione e di correzione “ in itinere” del curricolo dello studente, fondato su intelligenti metodologie di flessibilità didattica.
La scuola, gli adulti della scuola devono imparare, in modo sempre più professionale,
a venire incontro alle necessità formative dei giovani, ai loro bisogni
(opportunamente interpretati e, per così dire, pedagogizzati).
Cercando di non prestar eccessiva attenzione ai propri bisogni (spesso desideri)
inappagati, scambiati e confusi con quelli degli studenti, in un’inversione dei ruoli
controproducente soprattutto a livello educativo.
Il dovere dell’adulto-docente consiste essenzialmente nel rappresentare una base
sicura, umanamente e formativamente, per lo studente, evitando qualsiasi
scimmiottamento giovanilistico.
4. Si può cambiare?
Vale la pena, a questo punto, di chiederci come si possa agire, istituzionalmente, sulla scuola per il miglioramento della scuola stessa.
Anzitutto occorre lavorare per la formazione del personale, soprattutto docente e
dirigente, sia di quello in servizio sia di quello che verrà.
Per quanto riguarda i Capi d’Istituto appare impostata su buone basi metodologiche e
su qualificanti contenuti la loro formazione a dirigenti scolastici, che costituirà inoltre un precedente di gran peso per la selezione dei futuri dirigenti.
Per i docenti futuri è irrinunciabile la formazione universitaria con forte
accentuazione psicopedagogica e non va certo in questa direzione l’ennesimo
concorso deprofessionalizzante che, riesumando famigerati provvedimenti “ope
legis”, vanifica di fatto il primo serio tentativo di collaborazione tra Università e
scuola. Da parte loro tutti gli altri operatori già in servizio attendono, da decenni, un sistematico e continuativo intervento formativo-aggiornativo, non legato cioè alla casualità delle proposte e delle situazioni, all’estemporaneità culturale di molti, troppi, cosiddetti formatori.
Svincolato, soprattutto, dal risibile legame tra orario di aggiornamento e progressione di carriera, senza che vi sia alcuna valutazione della preparazione eventualmente acquisita.
Infine, l’attuale impianto normativo autonomistico, avviato dall’art.21 della legge 59 (c.d. Bassanini I) è riconducibile ancora ai “nomi” e non alle “cose” dell’autonomia scolastica: manca, a tutt’oggi, parte di quegli atti d’impegno che soli potranno rendere effettivamente “praticabile” la progettualità autonoma delle singole scuole, per troppo tempo compressa da mastodontiche ed inefficienti strutture burocratiche e da insensati lacciuoli amministrativo-sindacali. Incerta, inoltre, è – ad oggi – la prospettiva del riordino dei cicli e della riscrittura dei “saperi di base”, tutte tessere indispensabili per una definizione concreta del mosaico di riforma.
Se – come è auspicabile – l’avviato processo di costruzione dell’autonomia si
svilupperà con cadenze tempestive e con soluzioni razionali, nelle scuole potrà
crearsi / rinforzarsi / ampliarsi quell’atmosfera di propositività culturale, di
responsabilizzazione professionale e di efficacia formativa necessarie per uscire dalle secche in cui siamo da anni impantanati.
Solo in un chiaro ambito autonomistico sarà infatti possibile impostare l’azione
educativa sulla base delle metodologie della flessibilità curricolare, partendo dal
rilevamento dei livelli di partenza, tenendo conto dei bisogni formativi di ognuno,
valorizzando le differenze individuali (anche nell’accezione dell’eccellenza, da
sempre colpevolmente trascurata nel nostro paese) e le caratteristiche socioculturali
locali.
Il curricolo degli studenti italiani (mi riferisco soprattutto alle scuole medie e
superiori) non è superato ed anacronistico tanto per mancate o incomplete riforme di
contenuti programmatici ed ambiti disciplinari, quanto per la sua statica monoliticità: materie, contenuti, classi, ore, uguali per tutti.
Solo con l’affermazione del curricolo flessibile si potrà sperare di sanare gran parte delle attuali aporie nella formazione degli studenti.
In questa ottica di flessibilità dovrà dunque risultare non episodico (come ora
avviene) l’impegno a rinsaldare i rapporti tra la scuola e la famiglia, rivolgendo anzi sempre maggior attenzione professionale alla relazione educativa e comunicativa tra genitori e figli, in collaborazione e sintonia con le strutture psicopedagogiche del territorio, siano esse pubbliche o private, avviando convenzioni con strutture o
singoli.
Evitando, sperabilmente, l’ennesima, inefficace, burocratizzazione del problema
quale deriverebbe dalla recentemente proposta istituzionalizzazione dello
psicologo/baby-sitter, oltretutto impiegato scolastico di stato e controparte dei
docenti.
Due osservazioni finali, a conclusione di questo mio intervento.
Non contribuirà, di certo, alla valorizzazione delle potenzialità formative delle scuole una soluzione legislativa, riguardante i futuri organi di governo, che ne moltiplichi le sedi, le funzioni, la rappresentatività, intrecciando, sovrapponendo, affastellando e complicando. Confondendo le istanze di rappresentatività con gli ambiti di competenza tecnico-professionale.
La scuola ha bisogno di chiarezza e linearità, non di confusione preludente a conflitti e contenziosi aggravati rispetto al presente.
Lo stato giuridico del personale, infine. Mi riferisco soprattutto ai docenti.
Attualmente la loro, dobbiamo avere il coraggio di dirlo, è una semiprofessione,
femminilizzata (“absit iniuria verbis” !), a tempo parziale.
Estremizzando, si potrebbe sostenere che la professione di docente è solo
complementare al vero impegno primario, quello di natura familiare, intendendo con
ciò gli obblighi e le cure verso la propria famiglia. Alla scuola va ciò che avanza da questo vero, primo lavoro.
Una scuola attenta alle diversità (siano esse di formazione di base, di estrazione
sociale, di origine etnica o quant’altro) che voglia democraticamente valorizzarne
alcune o rimuoverne altre richiede maggior lavoro: più tempo dedicato alla ricerca,
alla discussione in team professionali, alla realizzazione di interventi, alla valutazione della loro efficacia.
Ciò significa valorizzazione delle professionalità (a quando le “figure di sistema” su base professionale?), sistemi di controllo e valutazione, modelli di management
scolastico.
L’attuale stato giuridico contrasta con tutto ciò.
Sappiamo però che non possiamo più permetterci una moltitudine di scuole chiuse
alla didattica di pomeriggio e per circa 3 mesi d’estate, lontane dalle metodologie
della ricerca-intervento, insensibili alle problematiche dell’autodiagnosi di istituto, della valutazione delle prestazioni dei docenti, della rendicontazione delle proprie azioni.
I nostri discorsi sulla lotta al disagio scolastico, alla dispersione, alla devianza
giovanile, alla tossicodipendenza scadono in noiosa, stancante retorica se non si
creano le condizioni, di norma e di fatto, per avviare una vera rivoluzione del sistema formativo italiano. Cercando di recuperare il tempo perduto rispetto ai nostri partners europei. In sintesi, dopo l’entrata nell’unione monetaria, avviato brillantemente il risanamento dei “fondamentali” dell’economia, non sarebbe opportuno ora concentrare notevoli sforzi verso la ricostruzione, in senso moderno, del nostro
sistema formativo?
Il complesso di riforme scolastiche, di cui si sta discutendo in questi mesi, se vorrà raggiungere gli obiettivi dichiarati, dovrà intaccare posizioni corporative, difese di piccoli o grandi privilegi, interessi consolidati, incrostazioni burocratiche, disinteresse culturale.
Il rapporto elaborato dall’OCSE sulla politica nazionale dell’istruzione in Italia,
presentato nel 1998 al Forum della P.A., nel confortarci sulla bontà della strada
intrapresa, ci raccomanda di proseguire con fermezza e speditezza verso il
rinnovamento della scuola e della formazione in genere (intesa anche come
educazione permanente degli adulti), pena la perdita di influenza tra gli Stati
sviluppati ed un appannamento della nostra identità culturale.
Le iniziative parlamentari, ministeriali e contrattuali ci diranno se il cambiamento
avviato dalla Bassanini I avrà probabilità di successo o si sacrificheranno ancora una volta (parafrasando L vi-Strauss) i valori di identità delle società evolute ai valori di appartenenza che contraddistinguono le società arretrate.
Bibliografia
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- Cassese S. (1998), Lo stato introvabile, Roma, Donzelli
- Drago R. (1996), Carta della scuola e innovazione, Trento, Erickson
- Fonzi A. (1997), Il bullismo in Italia, Firenze, Giunti
- Masuelli M., Rusconi M. (1996), La Carta dei servizi delle scuole, Roma, ANP
- Romei P. (1995), Autonomia e progettualità, Firenze, La Nuova Italia
- Salzberger Wittenberg I., Polacco G., Osborne E. (1993), L’esperienza emotiva nel processo di insegnamento e di apprendimento, Napoli, Liguori
- Weick K.E. (1997), Senso e significato dell’organizzazione, Milano, Cortina

U.R.L. ( http://www.osservatorionazionalefamiglie.it/documentazione/famintpolsoc/Sess24_6.pdf )
H.P. ( http://www.osservatorionazionalefamiglie.it/ )

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